giovedì 18 ottobre 2018

IL BUON SAMARITANO


IL BUON SAMARITANO

Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37
 In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò auna locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

La parabola del buon Samaritano è un vero gioiello, che il solo Luca riporta inserendola nel contesto di un colloquio tra Gesù e un “dottore della legge” circa la possibilità di “ereditare la vita eterna”. Alla domanda (probabilmente tendenziosa) del “dottore”, il Rabbi di Nazareth risponde proponendo un’altra domanda (Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?), la cui risposta per un buon ebreo, e in particolare per un “dottore della legge”, non poteva essere che il rispetto del primo e del secondo comandamento (Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso), che nella migliore tradizione giudaica sono spesso uniti in un’unica realtà. Per il popolo semita, però, come si legge nell’Antico Testamento, il “prossimo” era circoscritto ai soli appartenenti alla comunità israelitica, e al tempo di Gesù il termine aveva un significato ancora più restrittivo, limitandolo esclusivamente a chi faceva parte del medesimo gruppo religioso o politico (Farisei, Esseni, Zeloti, Erodiani, ecc.); una restrizione “razzista” che, tra l’altro, non rendeva molto facile l’osservanza del secondo comandamento. Non è quindi irragionevole l’altra domanda del “dottore” (E chi è il mio prossimo?), che egli pone volendosi quasi giustificare, stimolando Gesù a denunciare tale mentalità egoistica con una parabola (del buon Samaritano), che allarga all’infinito il comandamento dell’amore estendendolo anche alle persone ostili.  Quindi, l’accostamento dei personaggi fatto da Gesù (un Samaritano che soccorre un Giudeo) significa che per un vero cristiano il prossimo è universale e ha per orizzonte non la cerchia familiare, etnica o religiosa, ma l’uomo per se stesso.
La parabola è veramente un capolavoro di creatività ed è ricca di sorprese e di passaggi espressivi e polemici molto belli. Alcuni studiosi pensano che Gesù si riferisca a un avvenimento di cronaca realmente accaduto, quando racconta di come un uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico sia stato assalito dai briganti e lasciato mezzo morto ai bordi della strada; in realtà tale percorso, con un dislivello di oltre 1000 metri, attraversa (ancora oggi) una zona desertica piena di anfratti, che era sicuramente molto pericolosa per la probabile presenza di predoni e assassini (come gli Zeloti), i quali potevano facilmente nascondersi e compiere improvvisi e rapidi gesti banditeschi. A questo punto della parabola Gesù inserisce tre personaggi molto particolari, che passando vicino al moribondo potevano prestare il loro aiuto. I primi due (un sacerdote e un levita), proprio per il servizio religioso che svolgevano, dovevano essere i più indicati a compiere un gesto di carità verso il prossimo, e invece lo “videro” e “passarono oltre”, probabilmente ritenendo più importante il rispetto delle norme della purità rituale che vietava di profanarsi con il sangue prima di un rito religioso. Ma poiché scendevano da Gerusalemme a Gericvo, dove abitavano, avevano finito il loro servizio.   Il terzo personaggio è un Samaritano, un forestiero mal visto dal popolo della Giudea per questioni politiche e religiose. Per questo sarebbe stata normale la sua indifferenza a un avvenimento che avrebbe potuto anche coinvolgerlo in possibili sospetti e recriminazioni; egli, invece, si china sul ferito, gli presta i primi soccorsi fasciandogli le ferite e disinfettandole con vino e olio, e poi lo porta in una locanda (in greco “tutti accoglie”), dove s’impegna con l’albergatore ad aiutarlo anche per il futuro (Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno).
In questo “gioco delle parti” è evidente l’intenzione “polemica” di Gesù nell’attribuire ai tre personaggi atteggiamenti così contrastanti; egli, in particolare, denuncia il formalismo liturgico e il culto “sterile” che non aiuta a vedere Dio nei fratelli (non è sufficiente credere in Dio per salvarsi se non si crede anche nell’uomo creato “a immagine di Dio”). La colpa del sacerdote e del levita è di non vedere lo stretto e indispensabile rapporto che unisce i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, mentre il Samaritano, forestiero ed eretico per i Giudei, compie quei gesti di benevolenza da essere di esempio per ogni credente. È su questa realtà, infatti, che termina la parabola (Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti ?), che mette con “le spalle al muro” il “dottore della legge” costretto ad affermare: “Chi ha avuto compassione di lui”. È espressivo come Gesù dalla domanda iniziale del “dottore” (Chi è il mio prossimo?) contrapponga ora, al termine della parabola, un’altra domanda (Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?…Va’ e anche tu fa’ lo stesso), ricordando che non è sufficiente scoprire chi è il nostro prossimo (la parabola lo dice chiaramente), ma “dimostrarsi prossimo” verso chi ha bisogno nella realtà di ogni momento.
Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo, mentre il Samaritano rappresenta la “santità” che si unisce al dolore per salvarlo. È per questo che alcuni studiosi vedono nel ritratto del Samaritano l’immagine stessa di Cristo; un’interpretazione legata anche alla tradizione delle origini, tanto che sulle mura di un edificio crociato diroccato, presente sulla stessa strada che porta da Gerusalemme a Gerico, è chiamato liberamente “il caravanserraglio del Buon Samaritano”, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: “Se persino sacerdoti o Leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna. In questa stupenda parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano, che già Gesù afferma nel famoso Discorso della Montagna presente nel Vangelo di Matteo (Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori), ripreso anche da Giovanni nel “testamento” dell’Ultima Cena (Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri). La parabola riassume una storia e un’esperienza di amore infinito, tuttora attuale perché è la storia di Cristo, che si è fatto Samaritano misericordioso per perdonare ogni essere umano. Nel racconto lucano, infatti, c’è un uomo abbandonato sul ciglio della strada, spogliato dei suoi averi, sfigurato dalle percosse. Non c’è in lui niente che può attirare lo sguardo dei passanti; c’è solo un corpo pieno di lividi, un volto deformato dalle percosse, una persona derubata di tutto quello che aveva. L’incontro con una simile persona non è una promessa di gioia, ma un peso da sollevare e una fatica da affrontare. L’amore, spesso, suppone una certa parità, ma qui non c’è parità. Il Samaritano che si ferma lo fa solo perché vede in quella persona abbandonata un uomo come lui, una sofferenza da aiutare, una persona da riportare alla vita. Si ferma, interrompe il viaggio, impegna il suo tempo per uno sconosciuto, lo cura, paga di persona. La stessa cosa avviene in Cristo che si china sull’uomo ferito dal peccato, sull’uomo che gli è diventato nemico e ha perso quella bellezza che gli aveva donato facendolo a sua immagine. Non c’è in lui (il peccatore) alcuna cosa che potrebbe attirare l’attenzione e tanto meno l’amore. Eppure Gesù decide di dare la propria vita per quest’uomo infedele, per questa persona che lo rifiuta. È questo l’amore misericordioso, è un amore creatore, perché prende in carico la persona e s’impegna a riportarla alla bellezza che ha perduto. È l’amore che continua ad amare, anche se nell’altro non c’è più amabilità. È l’amore che Gesù ha lasciato in consegna ai suoi fedeli: “Come io ho amato voi… e ho dato la vita per voi”. È l’amore rivoluzionario che immette nell’umanità invecchiata e piena di rughe quell’amare che ricostruisce la sua giovinezza e la sua bellezza. Gesù, come buon pastore, viene a salvare quelle pecore ferite alle quali i leviti (i religiosi del tempo) non sono riusciti a sanare le ferite (i peccati dell’umanità).
La parabola, quindi, riflette la storia della salvezza dove Gesù è rappresentato dal Samaritano; un uomo a quel tempo disprezzato da tutti, ma che porta la salvezza là dove gli altri hanno fallito. Egli raccoglie l’umanità ferita e la porta nella sua Chiesa (la taverna) che tutti accoglie. Il segreto di tutto questo è racchiuso nel grande comandamento della carità o, meglio, dell’amore, che per chi non crede può sembrare molto esigente. Non basta, infatti, amare il prossimo come se stessi, ma chiedersi come essere veramente prossimo per gli altri e amarlo come Dio l’ama. Il vero cristiano non può avere dubbi: l’amore è scegliere l’uomo e la sua dignità prima d’ogni cosa, prima del denaro, prima della carriera, prima del potere ecc. Se Dio è amore, se Cristo è la rivelazione di Dio perché si è donato fino alla morte, il vero cristiano rivela al mondo Dio con il suo amare concretamente il prossimo. Ma come tutto questo è possibile nella realtà di questa società così egoista, com’è possibile “farsi prossimo” degli altri manifestando fraternità? Il buon Samaritano dona tutto ciò che è necessario per essere veramente di aiuto, dona il suo tempo prezioso e il suo interessamento personale e non solo a parole, ma con i fatti. Così deve un vero discepolo di Gesù la cui carità (amore) deve realizzarsi nei concreti atteggiamenti di ogni giorno.

La compassione non è un istinto ma una conquista. La si conquista imparando il cuore di Dio, dalla Parola di Dio.
Poi il racconto di Luca si muove, mette in fila dieci verbi concreti che descrivono l’amore, e i dieci verbi sono:  vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, tirò fuori due denari” fino al decimo verbo “Al mio ritorno salderò il debito”. Questo è il nuovo decalogo!
I nuovi dieci Comandamenti, offerti ad ogni uomo, credente o no, la nuova Legge perché la Terra sia abitata da prossimi e non da nemici.

La compassione è un sentimento  per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui provandone pena e desiderando alleviarla.

Il concetto di compassione richiama quello di empatia  (empateia, composta da en-, "dentro", e pathos, "affezione o sentimento"), è il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che lega chi ama all’amata, sente “dentro” con tanta “affezione” da desiderare di percepire il sentimento dell’altro, il suo stato d’animo e volerlo condividere.

La compassione che è il meno sentimentale dei sentimenti, il meno zuccheroso, il meno emotivo, che significa: patire insieme, soffrire vicino, insieme amare.
La compassione non è un istinto ma una conquista: “Tu amerai”.
Tu amerai: un verbo al futuro perché amare è azione mai conclusa, che durerà quanto durerà il tempo, perché è un progetto, l’unico, e mai del tutto realizzato. Un verbo al futuro non all’imperativo, perché amare non è un obbligo, ma una necessità per vivere, amare è come respirare.
Cosa devo fare domani per essere vivo? Tu amerai.
Cosa farò l’anno che verrà e poi dopo, lungo il mio futuro? Tu amerai.
E il nostro destino, la nostra storia? Solo questo: Tu amerai.


I DIECI COMANDAMENTI DELL’AMORE:

Parabola del samaritano Lc 10, 29-37: “Và e anche tu fà lo stesso”

1)  - LO VIDE;                                  2) - N’EBBE COMPASSIONE;  
3)  - GLI SI FECE VICINO;              4) - GLI FASCIO’ LE FERITE;  
5)  - VERSO’ OLIO E VINO            6) - LO CARICO’;
7)  - LO PORTO’;                            8) - SI PRESE CURA;
9)  - DIEDE DUE DENARI;           10) - TORNO’ A DARE LA DIFFERENZA.


Con questi comandamenti Gesù ci dice di prenderci cura di ogni nostro fratello e continua ricordandoci che se il samaritano non concluse la sua opera alla locanda, ma si prese cura anche del dopo, così noi seguaci di Gesù e per i suoi meriti fratelli con Lui e fratelli di coloro che per Lui tali sono diventati, dobbiamo sentirli fratelli per sempre, come Lui sente per sempre noi e loro, Amen.



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