domenica 9 dicembre 2018


IL GREGGE E L’OVILE
(Gv 10,1-16)
               Per cogliere più a fondo il mistero della Chiesa, i Padri conciliari, nella Lumen Gentium*, hanno fatto uso del linguaggio delle immagini, recuperando il ricco patrimonio del simbolismo ecclesiologico disseminato nella rivelazione biblica. 
           La Chiesa – leggiamo nella Lumen Gentium (n.6) - è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo. E’ pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore.
          Queste due immagini bibliche - l’ovile e il gregge  - rivelano “l’intima natura della Chiesa”.
Gesù, come riferisce l’evangelista Giovanni al cap. 10, le ha illustrate a fondo presentandosi come il buon Pastore che custodisce cura e nutre il suo gregge e che addirittura  dà la vita per esso.
Certo, per l’antico popolo d’Israele, discendente da aramei erranti nel deserto (Deuteronomio* cap. 26 vers. 5), era molto familiare l’immagine del gregge per indicare il popolo che Dio si è scelto.
Il profeta Isaia* aveva considerato Dio come un pastore che fa pascolare il suo gregge, e con il suo braccio lo raduna (cap. 40 vers.11).
Ezechiele* (cap. 34), rimproverando i pastori d’Israele che si nutrivano di latte, si rivestivano di lana e ammazzavano le pecore più grasse, ha preannunciato che Dio stesso si sarebbe ripreso il gregge e avrebbe fatto da pastore al suo popolo.
          Oggi queste immagini sono meno immediate perché di greggi al pascolo se ne vedono ormai pochi rispetto al passato, quando, anche tra la gente di Calabria, c’erano molti pastori che guidavano le pecore su e giù per le montagne dell’Aspromonte. Solo se ci si addentra nell’entroterra, raggiungendo qualche contrada lontana è ancora possibile familiarizzare con la vita del pastore che tenacemente “raduna il suo gregge con il braccio; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11).
           Cerchiamo dunque di recuperare i colori di queste immagini pastorali, gustando la bellezza suggestiva dell’ambiente biblico.
            Lo facciamo a partire da questa affermazione di Gesù: “Io sono la porta dell’ovile”.
            Perché proprio “la porta”?
In Palestina, ai tempi di Gesù, solitamente il pastore radunava le pecore in una caverna poco profonda che poteva offrire sicurezza per la notte e spesso ostruiva l’apertura con un muricciolo munito di porta.
Prevalentemente, però, costruiva un muretto di sassi  e lui stesso si sdraiava lungo l’apertura fungendo da porta per le pecore. Solo il pastore poteva consentire l’accesso all’ovile, perché egli, stendendosi lungo quella porta, consentiva alle pecore di sentire il suo profumo e entrare nel proprio ovile calpestando il suo corpo. I ladri e i briganti invece scavalcavano il muro, uccidevano quante più pecore potevano prima di essere scoperti e le gettavano fuori dell’ovile ai complici.
Talvolta invece i pastori si occupavano del gregge solo durante il giorno. Con il sopraggiungere della notte, portavano le loro pecore in un grande ovile o in un recinto comunitario, ben protetto contro banditi e lupi. E un guardiano vigilava per tutta la notte. Al mattino poi, quando giungeva il pastore, batteva il palmo delle mani sulla porta ed il guardiano apriva. Chiamate per nome, le pecore riconoscevano la voce del loro pastore, si alzavano e uscivano dietro di lui verso i pascoli. Le pecore degli altri pastori udivano la voce, ma rimanevano come erano, perché quella voce non era da loro conosciuta.
         Comprendiamo bene ora il senso di queste similitudini. Soprattutto la porta a cui allude Gesù risulta più di un semplice varco attraverso cui entrare e uscire. Ma approfondiremo il senso di queste metafore dopo aver letto il testo di Giovanni Evangelista ( cap 10 vers dall’1 al 16):
              1«In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. 4E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. 7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: Io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.  11Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. 12Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; 13egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore».
           Innanzi tutto contestualizziamo il brano (testo). L’evangelista ha appena raccontato (contesto) la guarigione cieco nato che era stato espulso dalla sinagoga per la sua confessione di fede sul Messia. Poteva dunque apparire come una pecora sbandata, senza pastore né gregge, tagliato fuori dalla comunità giudaica, scomunicato per la sua fede.
         E invece no! - sembra voler puntualizzare Gesù - Chi crede in me entra nell’ovile di Dio attraverso la porta di salvezza e in esso trova la vera vita. “Io sono la porta” – ribadisce, riferendosi al suo essere mediatore del loro “entrare e uscire”, che nel linguaggio semitico indica  la pienezza della comunione con il Pastore.
Fuor di metafora, l'ovile è la comunità dei credenti in Cristo. E’ la Chiesa. E il gregge siamo noi, popolo di Dio, raccolti in unità attorno al Pastore supremo. L’ovile raccoglie, custodisce, preserva dal male, soprattutto nella notte, quando il buio diventa complice di chi vuol fare razzia. Così la Chiesa, vivificata dallo Spirito, contagiata dall’urgenza della stessa carità di Cristo. In unità, nell’unico gregge, per pregustare la mediazione salvifica di Cristo, Pastore buono. “Se davvero l’amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore – dice Gregorio di Nissa - , allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l’unità. La salvezza sta infatti nel sentirsi tutti fusi nell’amore dell’unico e vero bene”.
          Dunque, unità nell’amore. Che si realizza in quell’«entrare e uscire» di sapore semitico in cui si assapora la comunione piena con Dio e tra noi, “perché il mondo creda” in Cristo Gesù Salvatore (cfr. Gv 17,21).
           Chiediamoci ora: qual è la caratteristica di questo gregge di Dio? “Le pecore ascoltano la sua voce” (v. 3), “le mie pecore conoscono me” (v.14). Ecco: l’ascolto e la conoscenza. Ossia la docilità e la familiarità con il Pastore, che scaturisce dal sentirsi chiamare per nome, dal fare esperienza della Sua Parola e della Sua Presenza. Per noi, la familiarità con le Scritture e i Sacramenti. La Parola infatti “è un dono, un appello, mediante il quale Dio “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (Dei Verbum*: 2). E i Sacramenti “sono tutti una diversa espressione e partecipazione all’unico mistero della morte e risurrezione del Signore”.
          Infine, la metafora della porta, che abbiamo ben assimilato attraverso la feritoia aperta sull’ambiente biblico. Gesù è la porta, abbiamo detto. Dunque l’accesso “obbligato” per mettersi in comunione con il Padre e con il gregge. Però, attenti: nel linguaggio biblico la porta non indica solo un luogo di passaggio, ma spesso sta a significare la città o il tempio nel suo insieme (cfr. sal. 87 e sal. 122,2). Quindi Gesù è “luogo” di salvezza, non semplicemente “via”. La porta allora riconduce e richiama il mistero pasquale: “io offro la vita per le pecore” (v.15) – dice Gesù. Un “offrire” che, tradotto letteralmente, significa: “deporre l’anima a favore di qualcuno”, cioè spingersi al sacrificio supremo per salvare un amico. E si tratta di un’offerta, come esprime lo stesso verbo “deporre”, fatta con estrema libertà, per amore, e nella possibilità di privarsene e riprenderla, perché Gesù è il Signore della vita e della morte.
           Ecco cosa ci è dato di gustare nella Chiesa di Dio!
          La bellezza-bontà di un amore che ci raccoglie in unità, si spalanca alla conoscenza di sé, che è intimità profonda, e si offre a noi deponendo la sua divinità per restituirci la nostra dignità di figli. Amen.

Note
*”Lumen Gentium”:   
                                                  “Costituzione sulla Chiesa”                               
*”Dei Verbum” :                      “Costituzione sulla Divina Rivelazione” 
Due dei quattro documenti basilari del Concilio Vaticano II    
 Altri
*”Sacrosanctum Concilium”:  “Costituzione sulla Sacra Liturgia”
*”Gadudium et Spes”:             “Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”    

*”Deuteronomio”  insieme a  “Genesi”, “Esodo”, “Levitico”, “Numeri” costituiscono
                          Il “Pentateuco”: questi sono i primi 5 libri dell’ “Antico Testamento”.
Seguono: 16 “Libri Storici” ; 7 “Libri Sapienziali”; 18 “Libri Profetici” perciò l’”Antico Testamento” complessivamente ha  un totale di 46 libri.
*”Isaia”  e  *”Ezechiele”  Sono due dei più incisivi Profeti.   

Il “Nuovo Testamento” complessivamente ha un totale di 27 libri
4 Vangeli:                      Matteo, Luca, Marco, Giovanni
1 Atti degli Apostoli
13 Lettere di Paolo:       Romani, 1Corinzi, 2Corinzi, Galati, Efesini, Filippesi,
                                       Colossesi, 1Tessalonicesi, 2Tessalonicesi, 1Timoteo,
                                       2Timoteo,Tito, Filemone
1 Lettera agli Ebrei
1 Lettera di Giacomo
2 Lettere di Pietro:          1Pietro, 2Pietro
3 Lettere di Giovanni:     1Giovanni, 2Giovanni, 3Giovanni
1 Lettera di Giuda
1 Apocalisse di Giovanni  

La “Bibbia”  complessivamente ha un totale di 73 libri                                    


BARTIMEO
il figlio di Timeo

      “”E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E Chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!” Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: “Che vuoi che io ti faccia?” E il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!” E Gesù gli disse: “Và, la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.”” ( Mc 10,46-52)
         
          Gesù è sempre alla ricerca dell’amato suo e del Padre.
La sua strategia è propria di chi ama perdutamente.
L’aspetta “al varco”, come alla Samaritana. A Bartimeo lo cerca, come per caso, avviandosi sulla via dove il cieco chiede l’elemosina,
Con la Samaritana prepara il piano: vuole restare solo, solo senza alcun testimone, perciò manda i discepoli a fare delle spese. Dopo averle chiesto dell’acqua, la provoca in una disputa teologica per poi rivelarsi: “il Messia”.
Resterà unica, una prostituta, a ricevere la rivelazione della sua vera identità: “Sono io che ti parlo”.                  
Con Bartimeo non c’è un dialogo teologico, c’è la ricerca di quell’ uomo solo, solo senza il padre Timeo, Gesù vuole dargli quel padre assente, vuole dargli l’amore del vero Padre, l’amore suo e quello di suo Padre.
Bartimeo appena realizza che è Gesù Nazzareno quello che predica a molta folla, comincia a gridare: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Più la folla vuole azzittirlo per non disturbare la predicazione di Gesù, più egli grida il suo dolore, ma Gesù era lì per cercare lui.
L’evangelista è sintetico e lapidario, Gesù non chiede alla folla chi è costui che grida ma : ““Si fermò e disse: “Chiamatelo!” Ben sapeva chi era e cosa volesse. La folla, alla richiesta di Gesù, ora sollecita il cieco: “Coraggio! Alzati ti chiama!”.
Contempliamo l’asciutta descrizione di Marco: “Egli, gettato via il mantello , balzò in piedi   e   venne da Gesù”.
In quel tempo, per un povero cieco o per tanta povera gente, il mantello era il compagno del suo corpo: un giaciglio per dormire, una coperta per coprirsi, un mantello per ripararsi dal freddo. Ebbene il cieco lo getta via, l’unica cosa preziosa che ha, “la getta via”. E se Gesù non l’avesse guarito e la folla andata via, chi gli avrebbe cercato, raccolto e ridato il suo mantello a Bartimeo?
Bartimeo non si alzò ma spiccò un salto per slanciarsi verso una direzione, verso Gesù, guidato dal suo istinto verso chi lo cercava; sono certo che insieme alle gambe, anche il cuore gli sobbalzò nel petto. “Balzò in piedi”. 
Venne da Gesù, Marco dà per scontato che Bartimeo con quello slancio è già di fronte a Gesù, Lo sguardo non è identico, mentre Gesù avvolge col suo l’amato cieco, Bartimeo aspetta ansioso che i suoi occhi possano finalmente vedere il volto, gli occhi di Gesù, vedere l’intensità dell’amore di Gesù, proprio per lui.
Allora Gesù: “Che vuoi che io ti faccia?” Gesù gli pone la domanda scontata, infatti il cieco a lui: “Rabbunì, che io riabbia la vista!”. Altrettanto scontata la risposta di Bartimeo.
Nessun commento se non ammirare l’incontro faccia a faccia tra l’amante e l’amato. Non ci sono parole per esaltare l’incontro, solo chiudere i nostri occhi ed immaginare la forza, la potenza, l’energia del momento: Gesù è impaziente: “Chiamatelo d’avvolgere col suo amore Bartimeo, l’amato e l’altro impaziente di vedere con i suoi occhi il Nazareno, il Figlio di Davide, Gesù il Salvatore.
Marco ancora sintetico ma avvolgente, perché non ci dice solo che Gesù ridona la vista al cieco ma ci dice che Gesù amò Bartimeo, come l’amore sa fare, dare tutto fino al donarsi per amore: “”E Gesù gli disse: “Và, la tua fede ti ha salvato”.
Gesù allora oltre alla vista, oltre e guarirlo ha rassicurato Bartimeo che è stato sanato non solo fisicamente ma salvato, l’ha mondato pure da ogni suo peccato.
Cosa poteva fare Bartimeo se non seguire Gesù. Allora: “Prese a seguirlo per la strada”.  
Vorrei essere col cieco, nel cieco e gridarti: “Figlio di Davide, Gesù abbi pietà di me” e con lui: “gettare il mantello, balzare in piedi, venire a te per sentire l’intensità del tuo infinito amore e sentirmi dire: “Va, la tua fede ti ha salvato”.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          


giovedì 29 novembre 2018

La Samaritana
Gv  4, 1-42
 
  Una delle più belle pagine del vangelo di Giovanni e del Nuovo Testamento.
  Il dialogo tra Gesù e la donna samaritana, può essere compreso e goduto soltanto se lo si situa nel contesto storico e religioso che l’ha ispirato.
  Lo sfondo geografico dell’episodio è la Samaria, tra la Giudea e la Galilea, e più precisamente la città di Sicar, presso il cosiddetto “pozzo di Giacobbe” (vv. 5-6).     Gesù deve necessariamente attraversare quel territorio, perché si sta recando in Galilea, la sua terra, dopo aver sentito notizie poco rassicuranti (vv. 1-3). Stanco del viaggio, Gesù ha bisogno di bere e ne chiede a una donna samaritana che viene ad attingere all’antico pozzo del patriarca Giacobbe.      
  La prima anomalia nell’incontro è comprensibile proprio nel quadro dell’ormai secolare dissidio che esisteva tra la popolazione giudaica e quella di Samaria. Quest’ultima addirittura custodiva una sua Torà (= il pentateuco) distinta da quella diffusa tra i Giudei. Il dissidio era insanabile e carico di disprezzo reciproco. E tuttavia Gesù rivolge la parola alla samaritana, provocando in lei un comprensibile stupore (vv. 7-9). Via via che il dialogo si snoda, Gesù porta la donna dal piano della contingenza storica e fisica a quella del mistero rappresentato dalla persona di Cristo.
 Egli è l’uomo che chiedendo acqua per dissetarsi, è capace di offrire a sua volta un’acqua che non si esaurirà mai e che creerà vita eterna (Gv 4,10-14).      
  L’evangelista Giovanni, ci fa fare lo stesso percorso della samaritana sulla strada che la conduce a comprendere e riconoscere la verità di Cristo. Le risposte che Gesù costruisce per la samaritana, come una serie di scalini verso la sua rivelazione (v. 26), si basano tutte su concezioni bibliche o giudaiche (Gesù riconosciuto come profeta, l’attesa del Messia, il luogo legittimo per l’adorazione di Dio: Garizim o Gerusalemme), sulla base delle quali la donna risponde a sua volta e chiede, salendo con il suo maestro verso l’alto.      
  Studio delle Scritture, gradualità e dialogo sono gli ingredienti necessari per percorrere la strada verso la verità. Le Scritture ebraiche sono il codice comune di Gesù e della samaritana, e, proprio per questo, anche il nostro; la gradualità e il dialogo sono il rispetto della qualità umana del cammino.
  La prima verità da rispettare in questo caso è la persona umana, così com’è, con le sue capacità, la sua cultura, le sue istanze e i suoi spazi d’ombra. Gesù è il modello di comportamento. Anche questo brano evangelico ci fa capire che la fede in Cristo per noi cristiani non si acquisisce o custodisce nella contrapposizione ebraismo-cristianesimo, bensì nell’incontro e nell’accettazione di Gesù Cristo.
  Perfino la situazione matrimoniale “irregolare” (vv 16-18) della samaritana non diviene oggetto di condanna da parte di Gesù, bensì occasione di salire ancora di un gradino verso la salvezza di se stessa, attraverso la conoscenza della verità che è il Cristo.  Il dialogo si fa più intenso e porta la samaritana ad una prima accettazione di Gesù, perciò (v 19)  la donna: “Signore, vedo che sei un profeta ….”.
  Ancora una contesa teologica che contrappone la samaritana al giudeo (vv 20-24).
Qui la samaritana dimostra la conoscenza della propria Torà, quella donna, con la sua poca cultura, duemila anni fa, conosceva le scrittura che parlano di Dio, di come, dove e a chi pregare, conosce chi dovrà venire per rivelare tutta la verità.
  Oggi pochi cristiani conoscono appena qualcosa di Dio, di Gesù, pochissimi hanno letto interamente un vangelo. Quello di Marco è composto di poche paginette.
Quella samaritana invece conosce e perciò può affermare (v 25):
So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando verrà ci annunzierà ogni cosa”
  Le disse Gesù:  (v 26) “Sono Io, che ti parlo.”
Improvvisa e frastornante autodichiarazione, fatta ad una donna, straniera, per giunta una prostituta.
  In tutte le religioni è l’uomo che cerca il suo Dio, solo nella religione ebraica-cristiana è Dio che cerca l’uomo, è l’Amore che cerca l’amato.
  In questo brano evangelico è più che esplicita tale ricerca.
  Solo dopo che Gesù si è rivelato alla samaritana i discepoli, che erano andati fare delle provviste “giunsero” e perciò lo pregavano: ”Rabbì mangia” ma lui si rifiutò          Giovanni ci ricorda che attraversando la Samaria vicino la città Sicar (v 6) “qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù, dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. (v 7) Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua …”.      Gesù proprio lei aspettava. Giovanni non ci dice il nome della donna ma ci induce a capire che voleva incontrare quella donna, da solo. Gesù, seduto presso il pozzo, aspettava quella donna con la brocca; due persone con due obbiettivi diversi: la samaritana, come al solito, era lì per attingere acqua, Gesù era lì per incontrare lei.
  Giovanni ci fa vivere l’incontro dell’amore con l’amata con tutte le complicanze e tensioni che comporta il rapporto amoroso, ma l’amore vince tanto da rendere la samaritana gioiosa e felice ma stordita: “La donna lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: <Venite a vedere un uomo che mi ha detto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?> . uscirono dalla città e andarono da Lui”.(vv 28-30)
  La samaritana ha trovato il tesoro, la perla preziosa e anziché custodirla corre a comunicare l’accaduto alla sua gente. Sì intontita perché pur avendo sentito con le sue orecchie e dalle labbra del Messia: “Sono Io che ti parlo”, vuole la conferma della sua gente.
  “Molti samaritani cedettero in Lui per le parole della donna … E quando i samaritani giunsero da Lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed Egli vi rimase due giorni. Molti di più cedettero per la sua parola e dicevano alla donna: <Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che Questi è veramente il salvatore del mondo>(vv 39-42)
  Gesù in terra straniera trova accoglienza, incontra gente assetata di Parole di Dio; i samaritani sono andati a trovare Gesù forse per curiosità ma avendolo conosciuto e ascoltate le sue parole hanno creduto tanto da dire alla samaritana e a noi:
“Questi è veramente il salvatore del mondo”.
  I samaritani udirono e seppero; noi possiamo leggere le sue parole e pregando possiamo colloquiare con lui.
  E’ necessario leggere le parole di Gesù: “L’ignoranza della Parola è ignoranza di Cristo”, dal prologo al commento del Profeta Isaia di San Girolamo.
  “Sono venuto solo per dirti, Signore, quanto sono felice da quando ti ho incontrato e mi hai liberato dai miei peccati … non so molto bene come pregare, però penso a te tutti i giorni .. Beh, Gesù … qui c’è Jim a rapporto !”      Preghiera del vecchio Jim
Da oggi, ogni giorno, non possiamo perdere l’opportunità di dire a Gesù:
“Gesù io sono qui a rapporto!”                                               

giovedì 18 ottobre 2018

PENTECOSTE


PENTECOSTE 
       
          La Pentecoste presso gli Ebrei era la festa della mietitura (Es 23,14), successivamente divenuta anche festa della rinnovazione dell’Alleanza  (2Cr 15,10-13).
Pentecoste a noi ci ricorda la fondazione della Chiesa come realtà viva; Cristo l’ha preparata: Lo Spirito Santo viene a prenderne possesso, ad animarla e  ad assisterla con i suoi carismi. Pentecoste è la festa della nascita della comunità dei credenti.
La sera di Pentecoste, mentre gli Apostoli con Maria erano riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme, come aveva promesso Gesù, ricevettero il Battesimo nello Spirito: “Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatté gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue, come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi” (At 2, 2-4)              
Quella Pentecoste, conferendo nuova forza, ardente zelo e tanta passione per il Risorto, diede inizio, con il veemente annuncio di Pietro, alla missione della chiesa; quella comunità cristiana, sfidando ogni pericolo, inizia a dare compimento al comando di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Quel primo annuncio, perciò, prelude la predicazione a tutte le genti, poiché quelli che ascoltavano Pietro, con una numerazione simbolica, cittadini di 12 nazioni, rappresentavano tutta la famiglia umana.
È qui il Carisma, il miracolo di Pentecoste, in uno dei suoi aspetti: Pietro parla nella sua lingua e cittadini di 12 nazioni lo sentono parlare nella propria lingua, non è la glossolalia di cui parla Paolo.
Di Quella Pentecoste,  ci è difficile immaginare quel momento stupefacente in cui ognuno dei presenti fece esperienza straordinaria col Divino; la grazia di Dio, dopo quella esperienza, non li abbandonerà e non ci abbandonerà mai più, a conferma delle parole di Gesù: “Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
Dopo la sua Risurrezione Gesù per 40 giorni confortò con la sua presenza gli Apostoli timorosi e delusi, rincuorati essi fecero un’esperienza nuova: quella col Risorto. Il primo colloquio con Gesù Risorto lo ebbe Maria di Magdala che cercava presso il sepolcro il Suo Gesù ed Egli rassicurandola le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre Mio e Padre Vostro, Dio Mio e Dio Vostro(Gv 20,17).
Certo Maria Gli aveva abbracciato le gambe, temendo di perderlo ancora.   Quale conforto più grande di questo poteva darle Gesù:
Il mio, d’ora in poi, è il Vostro!
La certezza delle presenza di Gesù tra loro accompagnava la preghiera della comunità dei credenti, Nuovo Popolo di Dio: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2, 42), lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo” (At 2,47) .
L’esperienza  Pentecostale continua. A garanzia che Gesù, da allora e per sempre, è con loro ed è e sarà con noi. Luca negli Atti degli Apostoli ci racconta che dopo pochi giorni assaporano ancora il medesimo gusto dello Spirito: “Quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza” (At 4, 31).
Dalla Pentecoste in poi lo Spirito Santo è una presenza costante nella comunità dei credenti in Gerusalemme e tra i pagani, a significare che il sacrificio di Gesù si era consumato per tutta l’umanità e per sempre. Infatti il libro degli Atti degli Apostoli ci fa assistere ad altre manifestazione della Pentecoste fuori Gerusalemme e tra i pagani.
IN SAMARIA: “Frattanto gli apostoli a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni. Allora imposero loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo. (At  8, 14; 17).
A CESAREA, in casa del centurione romano Cornelio, Pietro reca la buona novella: Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo. scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso(At 10, 44 e 11, 15 ).
AD EFESO si ripeté la stessa manifestazione Pentecostale alla presenza di Paolo:  E non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo.”(At 19,6)
         Ma l’Ascensione di Gesù, sotto gli occhi degli apostoli, pare davvero la conclusione di un evento stupendo, ma oramai esaurito: “… fu  elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo” (At 1, 9). La Nube E’ il segno della presenza di Dio, la nube che coprì il popolo d’Israele nel deserto (Es 40, 36-38). è la stessa ombra che l’Angelo Gabriele annuncia a Maria: ”Su di te stenderà la sua Ombra la Potenza dell’Altissimo” (Lc 1,25).     
L’Ascensione ricongiunge la terra al cielo, il mondo degli uomini al mondo di Dio, perciò Dio non è più al di fuori dell’esistenza e della storia umana, poiché in Gesù l’uomo accede alla Signoria, al mondo di Dio, al mondo dello Spirito Santo che Gesù riceve dal Padre e che unito al Padre lo dona all’uomo; perciò la Pentecoste è l’inizio del tempo futuro, il tempo dello Spirito, che non resta dentro i cuori degli apostoli ed in quella comunità, ma si manifesta a noi, trabocca, effonde per farci diventare comunità profetica, spirituale e missionaria.
         Pentecoste, nella chiesa e nei credenti, da quella prima manifestazione dello Spirito Santo è costante, perché Gesù donando il suo Spirito agli Apostoli e a noi per mezzo di loro, ha realizzato la sua promessa di essere con noi tutti i giorni:
Fino alla fine del mondo”.
Se l’effervescenza e la gioia dell’annuncio della parola di Dio e delle opere di Gesù gustate dalla prime comunità cristiane OGGI non si percepiscono e non si assaporano più, è perché siamo cristiani anagrafici e tiepidi, non già perché non aleggia lo Spirito Santo. come nelle prime comunità, ma perché non siamo “né caldi né freddi” (Ap 3,15).
Lo Spirito di Dio ha accompagnato ed accompagna sempre la sua chiesa, ne sono testimoni carismatici i Santi, che animati dallo Spirito Santo, hanno vivacizzato la chiesa: da S. Agostino a S. Francesco, da Padre Pio a Madre Teresa di Calcutta.
Ma le manifestazione più eclatanti, efficaci e guaritrici e che ci garantiscono la certezza della presenza costante dello Spirito Santo: sono quelle che si ripetono ogni giorno in tutte le chiese del mondo, quando si rinnova la morte e la risurrezione di Gesù, quando lo Spirito Santo trasforma le specie offerte in sangue e corpo di Gesù.     L’essenza del Padre e del Figlio: Lo Spirito Santo è certo in mezzo a noi perciò: “Lasciamoci riconciliare con Dio” (2Cor 5,20) per continuare l’opera iniziata per Gesù dagli Apostoli: “Come il Padre ha mandato me anch’io mando Voi” (Gv 20,21).

A conclusione vi prego: quando ci accostiamo a ricevere Gesù Eucaristico avviamoci  con la certezza di incontrare Gesù vivo non già solo un’ostia, vi prego. 

IL BUON SAMARITANO


IL BUON SAMARITANO

Dal Vangelo secondo Luca 10,25-37
 In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento, lo portò auna locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

La parabola del buon Samaritano è un vero gioiello, che il solo Luca riporta inserendola nel contesto di un colloquio tra Gesù e un “dottore della legge” circa la possibilità di “ereditare la vita eterna”. Alla domanda (probabilmente tendenziosa) del “dottore”, il Rabbi di Nazareth risponde proponendo un’altra domanda (Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?), la cui risposta per un buon ebreo, e in particolare per un “dottore della legge”, non poteva essere che il rispetto del primo e del secondo comandamento (Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso), che nella migliore tradizione giudaica sono spesso uniti in un’unica realtà. Per il popolo semita, però, come si legge nell’Antico Testamento, il “prossimo” era circoscritto ai soli appartenenti alla comunità israelitica, e al tempo di Gesù il termine aveva un significato ancora più restrittivo, limitandolo esclusivamente a chi faceva parte del medesimo gruppo religioso o politico (Farisei, Esseni, Zeloti, Erodiani, ecc.); una restrizione “razzista” che, tra l’altro, non rendeva molto facile l’osservanza del secondo comandamento. Non è quindi irragionevole l’altra domanda del “dottore” (E chi è il mio prossimo?), che egli pone volendosi quasi giustificare, stimolando Gesù a denunciare tale mentalità egoistica con una parabola (del buon Samaritano), che allarga all’infinito il comandamento dell’amore estendendolo anche alle persone ostili.  Quindi, l’accostamento dei personaggi fatto da Gesù (un Samaritano che soccorre un Giudeo) significa che per un vero cristiano il prossimo è universale e ha per orizzonte non la cerchia familiare, etnica o religiosa, ma l’uomo per se stesso.
La parabola è veramente un capolavoro di creatività ed è ricca di sorprese e di passaggi espressivi e polemici molto belli. Alcuni studiosi pensano che Gesù si riferisca a un avvenimento di cronaca realmente accaduto, quando racconta di come un uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico sia stato assalito dai briganti e lasciato mezzo morto ai bordi della strada; in realtà tale percorso, con un dislivello di oltre 1000 metri, attraversa (ancora oggi) una zona desertica piena di anfratti, che era sicuramente molto pericolosa per la probabile presenza di predoni e assassini (come gli Zeloti), i quali potevano facilmente nascondersi e compiere improvvisi e rapidi gesti banditeschi. A questo punto della parabola Gesù inserisce tre personaggi molto particolari, che passando vicino al moribondo potevano prestare il loro aiuto. I primi due (un sacerdote e un levita), proprio per il servizio religioso che svolgevano, dovevano essere i più indicati a compiere un gesto di carità verso il prossimo, e invece lo “videro” e “passarono oltre”, probabilmente ritenendo più importante il rispetto delle norme della purità rituale che vietava di profanarsi con il sangue prima di un rito religioso. Ma poiché scendevano da Gerusalemme a Gericvo, dove abitavano, avevano finito il loro servizio.   Il terzo personaggio è un Samaritano, un forestiero mal visto dal popolo della Giudea per questioni politiche e religiose. Per questo sarebbe stata normale la sua indifferenza a un avvenimento che avrebbe potuto anche coinvolgerlo in possibili sospetti e recriminazioni; egli, invece, si china sul ferito, gli presta i primi soccorsi fasciandogli le ferite e disinfettandole con vino e olio, e poi lo porta in una locanda (in greco “tutti accoglie”), dove s’impegna con l’albergatore ad aiutarlo anche per il futuro (Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno).
In questo “gioco delle parti” è evidente l’intenzione “polemica” di Gesù nell’attribuire ai tre personaggi atteggiamenti così contrastanti; egli, in particolare, denuncia il formalismo liturgico e il culto “sterile” che non aiuta a vedere Dio nei fratelli (non è sufficiente credere in Dio per salvarsi se non si crede anche nell’uomo creato “a immagine di Dio”). La colpa del sacerdote e del levita è di non vedere lo stretto e indispensabile rapporto che unisce i due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo, mentre il Samaritano, forestiero ed eretico per i Giudei, compie quei gesti di benevolenza da essere di esempio per ogni credente. È su questa realtà, infatti, che termina la parabola (Chi di questi tre ti sembra che sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti ?), che mette con “le spalle al muro” il “dottore della legge” costretto ad affermare: “Chi ha avuto compassione di lui”. È espressivo come Gesù dalla domanda iniziale del “dottore” (Chi è il mio prossimo?) contrapponga ora, al termine della parabola, un’altra domanda (Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?…Va’ e anche tu fa’ lo stesso), ricordando che non è sufficiente scoprire chi è il nostro prossimo (la parabola lo dice chiaramente), ma “dimostrarsi prossimo” verso chi ha bisogno nella realtà di ogni momento.
Il sacerdote e il levita incarnano la rigida sacralità che separa dal prossimo, mentre il Samaritano rappresenta la “santità” che si unisce al dolore per salvarlo. È per questo che alcuni studiosi vedono nel ritratto del Samaritano l’immagine stessa di Cristo; un’interpretazione legata anche alla tradizione delle origini, tanto che sulle mura di un edificio crociato diroccato, presente sulla stessa strada che porta da Gerusalemme a Gerico, è chiamato liberamente “il caravanserraglio del Buon Samaritano”, un anonimo pellegrino medievale ha inciso in latino questo graffito: “Se persino sacerdoti o Leviti passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il Buon Samaritano che avrà sempre compassione di te e nell’ora della tua morte ti porterà alla locanda eterna. In questa stupenda parabola appare in tutto il suo splendore il messaggio cristiano, che già Gesù afferma nel famoso Discorso della Montagna presente nel Vangelo di Matteo (Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori), ripreso anche da Giovanni nel “testamento” dell’Ultima Cena (Vi do un comandamento nuovo: Amatevi gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri). La parabola riassume una storia e un’esperienza di amore infinito, tuttora attuale perché è la storia di Cristo, che si è fatto Samaritano misericordioso per perdonare ogni essere umano. Nel racconto lucano, infatti, c’è un uomo abbandonato sul ciglio della strada, spogliato dei suoi averi, sfigurato dalle percosse. Non c’è in lui niente che può attirare lo sguardo dei passanti; c’è solo un corpo pieno di lividi, un volto deformato dalle percosse, una persona derubata di tutto quello che aveva. L’incontro con una simile persona non è una promessa di gioia, ma un peso da sollevare e una fatica da affrontare. L’amore, spesso, suppone una certa parità, ma qui non c’è parità. Il Samaritano che si ferma lo fa solo perché vede in quella persona abbandonata un uomo come lui, una sofferenza da aiutare, una persona da riportare alla vita. Si ferma, interrompe il viaggio, impegna il suo tempo per uno sconosciuto, lo cura, paga di persona. La stessa cosa avviene in Cristo che si china sull’uomo ferito dal peccato, sull’uomo che gli è diventato nemico e ha perso quella bellezza che gli aveva donato facendolo a sua immagine. Non c’è in lui (il peccatore) alcuna cosa che potrebbe attirare l’attenzione e tanto meno l’amore. Eppure Gesù decide di dare la propria vita per quest’uomo infedele, per questa persona che lo rifiuta. È questo l’amore misericordioso, è un amore creatore, perché prende in carico la persona e s’impegna a riportarla alla bellezza che ha perduto. È l’amore che continua ad amare, anche se nell’altro non c’è più amabilità. È l’amore che Gesù ha lasciato in consegna ai suoi fedeli: “Come io ho amato voi… e ho dato la vita per voi”. È l’amore rivoluzionario che immette nell’umanità invecchiata e piena di rughe quell’amare che ricostruisce la sua giovinezza e la sua bellezza. Gesù, come buon pastore, viene a salvare quelle pecore ferite alle quali i leviti (i religiosi del tempo) non sono riusciti a sanare le ferite (i peccati dell’umanità).
La parabola, quindi, riflette la storia della salvezza dove Gesù è rappresentato dal Samaritano; un uomo a quel tempo disprezzato da tutti, ma che porta la salvezza là dove gli altri hanno fallito. Egli raccoglie l’umanità ferita e la porta nella sua Chiesa (la taverna) che tutti accoglie. Il segreto di tutto questo è racchiuso nel grande comandamento della carità o, meglio, dell’amore, che per chi non crede può sembrare molto esigente. Non basta, infatti, amare il prossimo come se stessi, ma chiedersi come essere veramente prossimo per gli altri e amarlo come Dio l’ama. Il vero cristiano non può avere dubbi: l’amore è scegliere l’uomo e la sua dignità prima d’ogni cosa, prima del denaro, prima della carriera, prima del potere ecc. Se Dio è amore, se Cristo è la rivelazione di Dio perché si è donato fino alla morte, il vero cristiano rivela al mondo Dio con il suo amare concretamente il prossimo. Ma come tutto questo è possibile nella realtà di questa società così egoista, com’è possibile “farsi prossimo” degli altri manifestando fraternità? Il buon Samaritano dona tutto ciò che è necessario per essere veramente di aiuto, dona il suo tempo prezioso e il suo interessamento personale e non solo a parole, ma con i fatti. Così deve un vero discepolo di Gesù la cui carità (amore) deve realizzarsi nei concreti atteggiamenti di ogni giorno.

La compassione non è un istinto ma una conquista. La si conquista imparando il cuore di Dio, dalla Parola di Dio.
Poi il racconto di Luca si muove, mette in fila dieci verbi concreti che descrivono l’amore, e i dieci verbi sono:  vide, ebbe compassione, si avvicinò, versò, fasciò, caricò, portò, si prese cura, tirò fuori due denari” fino al decimo verbo “Al mio ritorno salderò il debito”. Questo è il nuovo decalogo!
I nuovi dieci Comandamenti, offerti ad ogni uomo, credente o no, la nuova Legge perché la Terra sia abitata da prossimi e non da nemici.

La compassione è un sentimento  per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui provandone pena e desiderando alleviarla.

Il concetto di compassione richiama quello di empatia  (empateia, composta da en-, "dentro", e pathos, "affezione o sentimento"), è il rapporto emozionale di partecipazione soggettiva che lega chi ama all’amata, sente “dentro” con tanta “affezione” da desiderare di percepire il sentimento dell’altro, il suo stato d’animo e volerlo condividere.

La compassione che è il meno sentimentale dei sentimenti, il meno zuccheroso, il meno emotivo, che significa: patire insieme, soffrire vicino, insieme amare.
La compassione non è un istinto ma una conquista: “Tu amerai”.
Tu amerai: un verbo al futuro perché amare è azione mai conclusa, che durerà quanto durerà il tempo, perché è un progetto, l’unico, e mai del tutto realizzato. Un verbo al futuro non all’imperativo, perché amare non è un obbligo, ma una necessità per vivere, amare è come respirare.
Cosa devo fare domani per essere vivo? Tu amerai.
Cosa farò l’anno che verrà e poi dopo, lungo il mio futuro? Tu amerai.
E il nostro destino, la nostra storia? Solo questo: Tu amerai.


I DIECI COMANDAMENTI DELL’AMORE:

Parabola del samaritano Lc 10, 29-37: “Và e anche tu fà lo stesso”

1)  - LO VIDE;                                  2) - N’EBBE COMPASSIONE;  
3)  - GLI SI FECE VICINO;              4) - GLI FASCIO’ LE FERITE;  
5)  - VERSO’ OLIO E VINO            6) - LO CARICO’;
7)  - LO PORTO’;                            8) - SI PRESE CURA;
9)  - DIEDE DUE DENARI;           10) - TORNO’ A DARE LA DIFFERENZA.


Con questi comandamenti Gesù ci dice di prenderci cura di ogni nostro fratello e continua ricordandoci che se il samaritano non concluse la sua opera alla locanda, ma si prese cura anche del dopo, così noi seguaci di Gesù e per i suoi meriti fratelli con Lui e fratelli di coloro che per Lui tali sono diventati, dobbiamo sentirli fratelli per sempre, come Lui sente per sempre noi e loro, Amen.